Bene, sono passati 9 anni ma i Testament sono tornati. The Formation of Damnation è un disco che urla a squarciagola “siamo ancora qui! Siamo ancora capaci di spaccare!” E in effetti i Testament alla loro veneranda età spaccano ancora come pochi, con una formazione per quattro quinti quella storica e l’innesto alla batteria dell’ottimo Paul Bostaph, sostituto di Nicche Barker fermato da problemi burocratici. Contrariamente a quello che mi aspettavo The Formation of Damnation non ritorna nè alle sonorità più tipicamente anni ’80 (quelle più consone al chitarrista Alex Skolnick) e neppure va avanti estremizzando il suono, come poteva essere visto l’innamoramente di Peterson con il Black Metal. Anzi… se c’è un disco tra quelli passati che assomiglia a The Formation of Damnation bisogna riscovare il panteriano Low, uscito nel 1994 dopo un primo scioglimento del gruppo. Pezzi come More than Meets the Eye e soprattutto The Evil Has Landed sembrano proprio delle out takes di quel disco… siamo tornati negli anni ’90! Non che sia un male, intendiamoci… anzi, sono tra i miei pezzi preferiti del disco. Si prosegue poi su coordinate più tradizionali con la titletrack, che però è forse il pezzo meno riuscito del disco, anche se Bostaph cerca di risollevarne la qualità con una grande prova dietro le pelli. Dangers of the Faithless è un pezzo di metal moderno molto buono, mentre con The Persecution Won’t Forget e Henchman Ride abbiamo il dittico forse più rappresentativo dell’album: due pezzi ricchi di groove, vari, suonati alla grande e capaci di spaziare da melodie quasi tradizionali (Bay Area Style!) a sfuriate più estreme in linea con il passat prossimo della band. I pezzi successivi sono invece un po’ deludenti, fatta eccezione per F.E.A.R. che mette in mostra delle belle sfuriate thrash e un’ottima linea vocale.
Insomma, com’è questo disco? Buono, molto buono… ma non è il capolavoro che ci si poteva aspettare dopo The Gathering. I Testament mantengono le promesse e ci consegnano un disco spaccaossa, tirato, senza compromessi con quanto va di moda adesso, e questo sicuramente è un bene, ma l’ispirazione non sembra più quella di dieci anni fa. L’indianone è comunque un mito e va promosso a pieni voti… ce ne fossero come lui nel mondo del metal! L’attesa però è per vederli dal vivo, dove sono sicuro che anche i pezzi di quest’album che non mi hanno colpito più di tanto sapranno scatenare un headbanging sfrenato.
In realta’ Skolnick e’ un chitarrista iperversatile, le sonorita’ anni ’80 al limite gli vanno strette! 🙂 Per il resto d’accordissimo.
Sisi, conosco il suo Alex Skolnick Trio… però se non sbaglio dopo The Ritual lasciò il gruppo proprio per andare verso sonorità più melodiche, no?
Piu’ che altro perche’ si era sbriciolato le palle di suonare metalz, sentiva che a continuare cosi’ avrebbe solo potuto diventare piu’ veloce e basta – per questo si mise a studiare. Quanto a capacità chitarrose, non ha certo problemi con roba ’80, ’90, ’00! 🙂