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Cannibali – Capitolo 1

Primo capitolo di un progetto al quale sto lavorando da un po’ e che non ha un titolo definitivo… per adesso lo chiamo “Cannibali”, e da ciò potrete intuire che questa primissima parte da “romanzo rosa” non rispecchia necessariamente l’eventuale proseguimento della storia 😉 Comunque… ditemi un po’ se fa proprio schifo!
P.S. La formattazione un po’ alla cazzo di cane dipende dal passaggio da word s qui, non fateci troppo caso…



Capitolo 1
La scala mobile saliva fino al secondo piano del Grande
Centro Commerciale, tra festoni grondanti allegria, musichette
assordanti che si ripetevano sempre uguali e il brusio di diecimila
voci una sopra l’altra, di tutta la città che come ogni anno si
ritrovava lì tra i negozi, per presenziare al principale rito
consumistico di quella festività pseudo-religiosa che è il Natale.
Arrampicata su tacchi troppo alti, Valentina si guardava intorno come
frastornata. Aveva mal di testa, aveva voglia di tornare a casa a
guardare la tv, a leggere un libro, persino a studiare. Dovunque, ma
non lì.
  • Terra
    chiama Vale. Sei tra noi? – Irene cercava come al solito di fare la
    spiritosa. Con scarso successo. Lei si che sembrava trovarsi a suo
    agio in quell’ambiente.
  • Si,
    scusatemi. E’ che mi fanno male i piedi.
  • Per
    forza, se fosse per te andresti con le scarpe da ginnastica pure in
    discoteca. Non ci sei abituata ai tacchi, se te li mettessi più
    spesso staresti meglio. Eppoi ti lamenti che non trovi un ragazzo.
  • Veramente
    non mi sono mai lamentata, semmai siete voi che… – Irene non la
    stava più ascoltando, e neanche le altre. Una di loro, forse Gaia,
    aveva visto un tizio che conosceva, forse un suo ex, ed era
    ricominciato il solito giro di pettegolezzi. “Carino ma
    stronzo”, aveva sentenziato qualcuna. Le sembrava di avere
    sentito lo stesso commento almeno un’altra decina di volte per dieci
    ragazzi diversi, quel giorno.
Valentina si avvicinò a Francesca. Anche lei era un po’
in disparte, anche se sorrideva in continuazione e sembrava davvero
felice di essere dove era. Desiderio di essere accettata, di essere
come le altre. Francesca si sentiva sempre in sovrappeso.. beh, lo
era, ed era costantemente a dieta. Non si poteva dire che non ce la
mettesse tutta, ma i risultati non erano ancora quelli sperati. Si
vergognava un po’. Per lei era già un grande successo avere trovato
il coraggio di uscire quel pomeriggio con il gruppo, tutte in tiro
com’erano.
  • Francy,
    mi ricordi come mai mi sono lasciata convincere a venire in questo
    posto, oggi?
  • Facile!
    Irene ci vuole far conoscere gli amici single del suo ragazzo, Dice
    che sono carini, magari ce n’è uno anche per noi.
  • E
    come avete fatto a farmi mettere la minigonna e questi maledetti
    trampoli?
  • Questo
    è un mistero anche per me. – Francesca sorrise. Aveva un bel
    sorriso contagioso. – Però sinceramente… sei bellissima oggi.
    Dovresti metterti così in tiro più spesso. Sono sicuro che
    cadranno tutti ai tuoi piedi.
  • Cadrò
    io ai loro piedi. Inciamperò, e tutti rideranno di me. – Francesca
    rise. Valentina le dette un colpetto sulla testa. – Ecco, tu hai già
    iniziato. Potevi almeno aspettare che mi rendessi ridicola! – Rise
    anche lei. In fondo pensava che Francesca non avesse tutti i torti.
    Anche se non vedeva l’ora di indossare i suoi vecchi jeans era stata
    attratta dallo specchio, prima di uscire, e quasi non riconosceva
    l’immagine che vedeva riflessa davanti a sè. Splendio lavoro,
    davvero uno splendido lavoro. E’ incredibile cosa possono fare un
    po’ di trucco e gli abiti giusti. Continuava a pensare che non ne
    valesse la pena, ma…
Più o meno a metà del secondo piano del Grande Centro
Commerciale, stretta tra una pizzeria al taglio e un negozio di
chincaglierie, una piadineria rappresentava la meta del gruppo di
ragazze. Non appena furono in vista, un paio di facce note si
alzarono dai tavolini che formavano una sorta di piazzetta lì
davanti e si diressero verso di loro. Luca, il ragazzo di Irene, e
Lele, suo fratello e loro compagno di classe. Dietro, alcuni fighetti
ingellati che a Valentina sembravano tutti uguali.
  • Non
    mi dirai che quelli sono gli amici di Luca! – sussurrò a Francesca.
  • Mi
    sa proprio di si. Guarda come è carino quello biondo! –
    Evidentemente non aveva colto la nota di sbigottimento.
  • Dai
    Francesca, ma è biondo ossigenato!
  • Che
    ti importa, non ti sei mai tinta i capelli tu? Andiamo a presentarci
    dai! – Senza aspettare la sua risposta negativa si tirò dietro
    Valentina e andarono incontro agli altri, che già iniziavano a fare
    conoscenza. Cinque maschietti, sei femminucce. Chi sarebbe rimasta
    senza accompagnatore?
Irene sbrigò in fretta le necessarie presentazioni:
fece qualche battutina sulla loro comune condizione di single e
sull’ingiustizia della sorte, poi lasciò che la conversazione
prendesse una piega più naturale. Dopo trenta secondi già Valentina
non si ricordava più neanche un nome, fatta eccezione per quello del
biondino ossigenato che a quanto pare si chiamava Kevin. “Kevin”!
Nel nome il destino, dicevano gli antichi, e nel destino di Kevin
Valentina vedeva solo il vuoto infinito. Poteva diventare un
astronauta, magari. Oppure partecipare al Grande Fratello. Ma magari
non era neanche colpa sua, e semplicemente il povero Kevin era
vittima di genitori malevoli o teledipendenti, o di un mamma
innamorata persa del Kevin Costner degli anni 80. Ci voleva una bella
ispirazione a battezzare il figlio con quel nome infausto. Vale gli
chiese se era di origini straniere, avrebbe potuto salvarsi. Ma era
italianissimo. Kevin Rossi. Che schifo.
Dopo qualche minuto di chiacchiere generali, come per
magia si formarono le coppie, più o meno omogenee. Valentina non era
rimasta sola. Per fortuna la sorte non gli aveva dato in dono il bel
Kevin, altrimenti difficilmente sarebbe riuscita a tenere a bada la
sua mal sopita voglia di cinismo. Accanto a lei si era piazzato un
bel moretto dall’aspetto innegabilmente attraente e dallo sguardo
altrettanto innegabilmente vacuo. Il nome non l’aveva colto, forse
Massimo, o Massimiliano, comunque qualcuno l’aveva chiamato Max e
decise che in caso di necessità avrebbe adottato anche lei quel
nome, riducendo così sensibilmente le sue possibilità di sbagliare.
Lui si dedicò ai primi approcci con una certa grinta: le prime
timide chiacchiere sulla scuola, sui pochi professori in comune,
sugli hobby (non giocava a calcetto ma a tennis: che strano!) e
persino qualche accenno di complimento. “Carina quella gonna”.
Valentina fu piacevolmente stupita perchè Max sembrava addirittura
usare correttamente i congiuntivi, fattore rarissimo e sintomatico di
una mente fervida e quasi diabolica. In fondo poteva persino andarle
peggio, alla fine magari quello si sarebbe rivelato un bel
pomeriggio, anche più divertente di una giornata passata in casa a
poltrire sul divano. Doveva piantarla con quel cavolo di pessimismo
cosmico.
Neanche Francesca era rimasta sola, e ora parlava fitto
fitto con Lele, e i due ridacchiavano senza ritegno. In fondo Lele
era un bravo ragazzo, anche se assolutamente anonimo. Viveva un po’
succube della personalità strabordante del fratello maggiore,
acclamato “grande figo” da tutta la scuola per il suo bel
fisico palestrato e per la vaga somiglianza con El Shaarawy, anche
nel ruolo in cui giocava a calcio. Vale era contenta, dentro di sè
un po’ malignamente aveva pensato che sarebbe toccato a lei restare
senza un cavaliere per la serata.
E invece era toccato a Beatrice, o Bibi, come la
chiamavano tutti. Valentina prese la cosa con grande soddisfazione,
perchè la detestava cordialmente. Anzi la disprezzava, per meglio
dire. Bibi, il cervello di una barbie nel corpo di una barbie. O
quantomeno le sarebbe piaciuto. Bibi che ora si guardava intorno come
spaesata, forse offesa che nessuno avesse notato le lunghe gambe
scoperte o gli stivaloni nuovi da giovane ma navigata mignotta.
Povera Bibi. O forse si chiedeva “ehi, ma il sesto dov’è?”.
Valentina rise a una battuta di Max che non avrebbe fatto ridere
neppure una iena, e si sentì tanto soddisfatta di sè che si spinse
persino a prendere il braccio di lui mentre insieme si dirigevano
verso non aveva capito bene quale negozio, provocando un’occhiata di
meraviglia da parte di Francesca, per un attimo interrotta la
ragnatela di chiacchiere con Lele, e una di odio e invidia da parte
di Bibi, che era dietro di lei a chiudere la fila. Non poteva
vederla, ma la sentiva, sapeva che la stava lanciando.
  • Pau!
    – Sentì un gridolino stridulo provenire dalle sue spalle. – Sono
    qui, dove ti eri cacciato?
  • Scusami
    amore, sono dovuto passare a mettere benzina prima di venire, mio
    papà mi aveva lasciato la macchina in riserva. – Una sorta di
    grande nano dalle spalle enormi si avvicinò a Bibi, che dall’alto
    dei suoi tacchi dovette sensibilmente abbassare la testa per
    ammollargli un lungo bacio in cui si intravidero circa due
    chilometri di lingue intrecciarsi. Fanculo, ecco perchè era stata
    lasciata sola. Valentina si rabbuiò per un istante mentre Max
    cercava di raccontargli contemporaneamente il film di Tarantino che
    aveva visto la sera prima e il motivo per cui i suoi genitori erano
    separati da ormai due anni. Probabilmente tra le due cose c’era un
    nesso evidente, ma lei faceva una certa fatica a coglierlo. Si
    sforzò di tornare a sorridere. Non doveva curarsi degli altri, lei
    si sentiva bene: il braccio di Max era magro ma muscoloso, aveva una
    voce calda e chiara, addirittura passo dopo passo Vale iniziava a
    sentire sempre meno la fatica dei tacchi alti. In fondo poteva
    cercare anche lei di fare qualcosa per ravvivare la conversazione.
  • Che
    tipo di musica ti piace?
  • Mah…
    più che altro ascolto rock. Non ho veramente un genere preferito.
  • Ci
    vai al concerto dei Creed il mese prossimo?
  • Ho
    già il biglietto nel portafogli! Guarda! – Tirò fuori il
    portafogli dalla tasca e ne estrasse il biglietto, sventolandolo
    come un trofeo. – Non mi dire che ci andrai anche tu!
  • Se
    i miei me lo finanziano e trovo ancora i biglietti, credo proprio di
    si. Spero che Babbo Natale me lo porti come regalo. Ma perchè me
    l’hai chiesto con quel tono? La cosa ti stupisce?
  • No…
    – Max era un po’ imbarazzato, e la cosa si vedeva. – Solo che a
    vederti così non ti si direbbe tipa da concerti rock.
  • A
    vedermi così… come? Comunque ascolto un po’ di tutto. – Valentina
    era divertita dalla conversazione, e azzardò uno sguardo malizioso.
  • Così…
    mi sembravi più tipa da discoteca, diciamo. Irene non ci ha parlato
    molto di te.
  • Forse
    è meglio così. Non sono una grande appassionata di discoteche, ci
    vado si e no due volte all’anno. E se mi vedi tutta in tiro è un
    caso, di solito preferisco uscire comoda, in maglione, jeans e
    scarpe da ginnastica.
  • Fai
    male sai? Vestita così sei più bella di tutte le altre messe
    assieme. – Valentina arrossì e abbozzò un sorriso, mentre quello
    di Max si allargava sempre di più. – Bene, vedo che oltre ad
    ascoltare buona musica non sei neppure insensibile ai complimenti. E
    sei modesta. Ora però sbrighiamoci a raggiungere gli altri, che
    sennò ci lasciano indietro.
Dopo tre negozi di abbigliamento, uno di scarpe, una
profumeria e un negozio di intimo dove Bibi aveva comprato un
completini praticamente invisibile, attraendo a sè per qualche
minuto gli sguardi e i commentini salaci di tutti i maschietti della
compagnia, il pomeriggio di shopping sembrò essere giunto agli
sgoccioli. Qualcuno propose di continuare la serata andando a
mangiare una pizza insieme, e tutti accettarono di buon grado, salvo
Bibi e Pau che avvinghiati in un groviglio inestricabile fecero
intendere di avere altri e migliori programmi per la serata.
Valentina chiamò suo papà e gli chiese il permesso di rimanere
fuori a cena. Permesso accordato, ma sarebbe venuto a prenderla alle
ventitrè in punto. Non un minuto più tardi.
La cena andò bene. Una buona pizza in mezzo a tante
chiacchiere e un’allegra confusione. Le altre ragazze avevano
insistito per ordinare un paio di bottiglie di vino bianco, e
Valentina forse si era lasciata andare a un paio di bicchieri di
troppo. Magari era per questo che si sentiva così bene. Ma in fondo
era quello l’importante. Aveva spento il cervello, dentro di sè era
consapevole che a quel tavolo si stavano facendo solo discorsi
stupidi da ragazzini, ma non era quello che erano realmente?
Ragazzini. Dio mio, aveva diciassette anni, non era più una bambina
e avrebbe avuto ancora molti anni davanti a sè per preoccuparsi
della sua vita da adulta. Quindi era l’ora di piantarla. Basta con i
comportamenti da verginella ingenua. Basta con gli atteggiamenti da
professorina pedante. Basta. Eppoi Max era gentile, ogni tanto le
prendeva la mano o le accarezzava i capelli con gesto studiatamente
distratto. Non aveva ancora afferrato bene il suo nome (ma perchè la
gente non si chiama più per nome?), ma Max sembrava andargli più
che bene, quindi… le piaceva. Soprattutto quando si chinava a
sussurrargli nell’orecchio quelle battutine stupide che la facevano
ridere a crepapelle. Lo guardò e gli sorrise, e lui le sorrise di
rimando. Magari potevano anche uscire insieme qualche altra volta,
perchè no?
Arrivarono caffè e limoncello per tutti, e la cena
finì. Caterina, una ragazza carina ma troppo magra, e apparentemente
non troppo soddisfatta del corteggiatore che le era toccato in sorte,
propose di concludere in bellezza andando a fare quattro salti in un
disco-pub lì vicino. Sembravano tutti d’accordo.
  • Mi
    dispiace ragazzi. – Vale alzò la mano. – Io non posso venire.
    Arriva mio padre a prendermi alle undici.
  • Chiamalo
    e digli che farai un po’ più tardi, no? – La faceva sempre troppo
    facile, Caterina.
  • Non
    posso. Già gli avevo promesso che sarei tornata a casa per l’ora di
    cena. No grazie, voi andate pure, così faccio quattro passi
    all’aria aperta prima che arrivi papà. Almeno ho anche il tempo per
    smaltire il vino. Ho bevuto un tantino troppo e ora mi sento un po’
    sbronza.
  • Dai,
    – le disse Irene – non possiamo mica lasciarti qui da sola al
    buio! E’ freddo, eppoi è pericoloso! Dai, alle undici manca ancora
    un’ora.
Prima che Vale potesse dire qualcosa, intervenne Max. –
Le faccio compagnia io. Anzi, se vuoi posso pure riportarti a casa
con la mia macchina. Tanto anche io non posso fare troppo tardi,
domani mattina purtroppo devo svegliarmi prestissimo. – Valentina gli
sorrise – un sorriso un po’ ebete forse, ma si sentiva decisamente
intontita – e Max le strizzò l’occhio. Gli altri fecero spallucce.
  • Oh
    beh, allora lasciamo i piccioncini da soli e noi andiamo a
    divertirci ancora un po’. Buonanotte ragazzi.
  • Buonanotte!
    – fecero Max e Vale all’unisono, e per l’ennesima volta scoppiarono
    a ridere entrambi.
Gli altri salirono sulle auto di due dei ragazzi, e ben
presto sparirono all’orizzonte. Lungo la strada calò un silenzio un
tantino imbarazzante.
  • Allora…
    – fece Max. – Andiamo a fare due passi nel parco o ti porto subito a
    casa?
  • Nono,
    niente casa, se papà mi vede tornare con un ragazzo in macchina sai
    che terzo grado ci scappa?
  • Ok.
    – Max non sembrava affatto dispiaciuto della risposta ottenuta. –
    Andiamo allora! – Le porse la mano. Vale intrecciò le dita con le
    sue, e insieme si incamminarono.
La città sembrava deserta. Il silenzio della notte era
rotto solo dal passaggio di qualche automobile solitaria, e dal
rumore dei tacchi di Vale sull’asfalto. Odiava quel rumore, le
sembrava che potesse sfondarle i timpani, ma cercò di non farci caso
e di ignorare il mal di testa. Arrivarono all’ingresso del parco.
  • Odio
    i tacchi. – Disse a Max, più per iniziare una conversazione
    qualsiasi che per reale bisogno.
  • Si?
    Io trovo che tu stia molto bene. Sei davvero sexy.
  • Certo.
    – Vale arrossì. Chissà se col buio Max se ne accorgeva. –
    Soprattutto con questa camminata da ubriaca.
  • Ma
    dai! Stai camminando benissimo!
  • Perchè
    sono ubriaca, appunto. Se fossi sobria sarei inciampata chissà
    quante volte, e tu avresti passato la serata a ridere di me.
  • Allora
    la prossima volta che usciremo insieme vedrò di non farti bere,
    almeno sarò sicuro di passare una serata divertente.
  • Se
    ci sarà una prossima volta mi vedrai uscire con te in pantofole! –
    Vale gli fece una linguaccia.
  • Guarda.
    – Max le indicò una panchina. – Un po’ di riposo per i tuoi piedini
    martoriati. Ci sediamo?
  • Volentieri.
Si sedettero l’uno accanto all’altra. Max allungò le
gambe, si stiracchiò e fece scrocchiare le dita. Vale invece si
sedette tutta intirizzita, raggomitolata nel suo giubbotto nuovo.
  • Posso
    confessarti una cosa? – Chiese in un impeto di sincerità.
  • Spara.
  • E’
    tutta la sera che ti chiamo Max perchè quando ci hanno presentati
    non ho afferrato bene il tuo nome.
Max rise di gusto. – Non ti preoccupare, mi chiamano
tutti Max! Comunque il mio nome è Massimo, molto piacere… – porse
la mano a Valentina, che la strinse.
  • Piacere,
    Valentina. -Non riusciva proprio a rimanere seria. E le piaceva
    anche la sua stretta di mano. Forte e decisa, ma gentile. – Non sei
    arrabbiato con me, vero?
  • Ma
    no, figurati, non mi arrabbio mai con le belle ragazze. E’ stata una
    bella giornata, mi ha fatto davvero piacere trascorrerla con te.
  • Anche
    io sono stata bene. – Cercò di reprimere un brivido. – Ora però
    sto morendo di freddo.
  • Se
    vuoi scaldarti, qui sotto c’è posto. – Max aprì il giaccone e
    allargò un braccio, invitandola a rannicchiarsi accanto a lui. Vale
    non si fece ripetere l’offerta due volte. – Va meglio ora?
  • Un
    po’ si, grazie.
  • Figurati.
    Se non ti basta e hai bisogno di un altro po’ di calore non hai che
    da alzare la testa.
  • Mmmhh?
    – Incuriosita Vale alzò lo aguardo, e senza neanche avere il tempo
    di respirare si trovò le labbra di Max incollate alle sue. “No!”,
    pensò per un attimo, ma poi quasi suo malgrado si sorprese a
    chiudere gli occhi e a dischiudere le labbra, ricambiando il bacio.
    Forse era il vino ad avergli levato tutte le inibizioni, ma sentiva
    solo il desidero di lasciarsi andare, almeno per una sera.
    Rassicurato dalla reazione ottenuta, Max si fece più audace, e la
    sua lingua cercò di farsi strada nella bocca di Vale, finendo per
    incontrare e accarezzare quella di lei. Sapeva di birra e di aglio.
    Ma che pizza aveva mangiato? “Cosa mi sta succedendo?”,
    pensò Vale, e sentì la mano di lui accarezzarle la coscia,
    pericolosamente troppo vicina all’orlo di quella gonna che ad ogni
    istante le sembrava più corta.
  • No!
    – Si ritrasse, e il bacio si interruppe bruscamente.
  • Cosa?
    – Max sembrava onestamente sorpreso.
  • Non…
    non posso, scusa?
  • Perchè?
  • Ho
    solo detto che non posso, non me la sento, mi dispiace! – Si alzò
    in piedi e fece qualche passo indietro, allontanandosi dalla
    panchina, cercando in qualche maniera di sistemare più
    dignitosamente i vestiti che indossava.
  • Non
    stavamo facendo nulla di male. Era solo un bacio! – Max allungò la
    mano cercando di afferrare quella di Valentina. – Dai, torna qui.
  • No!
    – Ancora qualche passo indietro. – E’ bene che vada a casa adesso.
    Grazie della compagnia.
  • Vale,
    torna qui. – Lei lo ignorò e continuò a tornare sui suoi passi,
    stando bene attenta a mettere un piede davanti all’altro. – Vale!
    Oh, vaffanculo, me l’aveva detto Irene che eri una bambina, sono
    stato un cretino a perdere tempo con te. – Max si alzò in piedi e
    iniziò ad allontanarsi velocemente nella direzione opposta.
Vale pianse. Le lacrime sciolserò gran parte del suo
trucco, e lei rovinò il resto stropicciandosi nervosamente il viso
con le mani. Era una cretina, solo una cretina. In fondo Max aveva
pure ragione, non stavano facendo niente di male. Era solo un bacio,
e neppure uno dei peggiori. Ma non poteva, non poteva. Semplicemente
non poteva continuare a far finta di essere quello che non era.
Quello non era il suo mondo, lo sapeva, era inutile. Il suo mondo era
quello delle ragazzine noiose e petulanti che diventano professoresse
o se va bene avvocati, e si sposano a 40 anni con un collega di
lavoro disperato quanto loro.
Arrivò alla fermata dell’autobus dove suo padre sarebbe
passata prenderla poco più di venti minuti dopo, si mise a sedere su
di una panchina e iniziò la sua attesa. Venti minuti per ricomporsi,
per asciugare le lacrime, per trovare la faccia giusta per rispondere
“tutto bene!” con un sorriso credibile quandò papà le
avrebbe chiesto “come è andata la serata?”. Si mise la
faccia tra le mani. Poteva ancora piangere cinque minuti.
Strano, a quell’ora e con quella temperatura, ma per
strada c’era ancora un po’ di gente. Una signora impellicciata
portava a spasso un cagnolino con tanto di cappotto, un patito della
forma fisica faceva jogging, da qualche parte lì vicino due ragazze
spettegolavano ad alta voce ridendo rumorosamente. Provava vergogna,
a farsi vedere in quelle condizioni. Teneva la testa bassa come per
sfuggire agli sguardi indiscreti… magnifico, e la calza quando si
era rotta? Ci mancava anche questa. Cercò di coprirsi come poteva,
con la borsetta. Quantomeno il freddo faceva brillare le stelle
ancora più del consueto, e la luna era davvero splendida. Si incantò
a guardare il cielo.
  • Scusa…
    Valentina, vero?
  • Come?
    – Vale si riscosse dal suo sogno ad occhi aperti.
  • Ti
    chiami Valentina, no? – Era una faccia nota quella che le si era
    avvicinata e le aveva rivolto la parola. Un ragazzo alto e magro,
    con i capelli molto lunghi e biondissimi, di certo non ossigenati, e
    la carnagione altrettanto chiara. Indossava jeans neri, un giubbotto
    di pelle, anfibi. Vale però non riusciva ad associare la sua faccia
    ad alcun nome.
  • Si,
    sono io.
  • Ecco,
    mi sembrava. Hai mica da accendere?
  • No
    mi spiace, non fumo.
  • Mmmhh.
    – Pensieroso, il ragazzo si guardò intorno. La signora con il cane
    era ancora nei paraggi. A grandi passi si mosse verso di lei.
Eppure Vale lo conosceva. Aveva la sensazione di averlo
visto chissà quante volte, anche se forse non si erano mai rivolti
la parola in precedenza. A scuola probabilmente, magari era in
qualche classe vicina alla sua e aveva sentito il suo nome da
qualcuno. Non era certo un volto molto comune quello, in una
cittadina dove tutti sembravano uguali sicuramente spiccava. Ora era
di ritorno, con la sigaretta accesa.
  • Vittoria!
    – Vale gli porse un sorriso di circostanza. – Ti da fastidio se mi
    siedo qui? Odio fumare camminando.
  • No,
    stai pure.
  • Non
    so perchè, ero convinto di averti vista con la sigaretta in bocca
    qualche volta. – Si girò verso di lei. – Se vuoi iniziare stasera,
    chiedi pure.
Vale sorrise. – No, grazie, preferisco di no. – Ragazzo
strano, ma in fondo sembrava innocuo. Lo osservò con la coda
dell’occhio mentre fumava la sua sigaretta in silenzio, a lente
boccate, guardando la luna o chissà che cosa. Poi lo vide gettare la
cicca a terra, ed alzarsi in piedi fischiettando.
  • Beh
    Valentina, buona serata.
  • Grazie,
    altrettanto a te.
  • Posso
    dirti una cosa? Senza offesa, eh.
  • Prego.
    – Era incuriosita.
  • Come
    ti vesti di solito, in jeans e maglietta, stai molto meglio. Non mi
    sembri per nulla a tuo agio così. Anche se stai bene, eh!

Vale gli sorrise ma non rispose. Non sapeva cosa
rispondere. Lui si incamminò verso la sua destra, e ben presto sparì
all’orizzonte, proprio mentre due fari iniziavano ad illuminare la
strada dall’altra parte. Era suo padre.

2 thoughts on “Cannibali – Capitolo 1”

  1. il titolo mi piace! 🙂

    il riferimento ai creed fa molto anni '90… però si parla anche di el sharaawy, quindi direi che l'ambientazione è contemporanea.

    comunque sembra interessante!

  2. Creed perchè volevo nominare un gruppo rock un tantino fuori moda… spero non si siano ancora sciolti 😛 cmq sono un figlio degli anni 90, credo si veda 😉 Grazie del commento!

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