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Il male che abita nel bosco – prima parte

Il Male che Abita nel Bosco

Il Male che Abita nel Bosco

I poliziotti arrivati in paese sembravano attori di un film. Erano altissimi, con i capelli sempre in ordine e le barbe ed i baffi perfettamente curati; le loro uniforme erano perfette, e mi chiedevo se anche loro sudassero sotto al gigantesco sole di Luglio. Mordevo una mela e attendevo annoiato sotto casa di Giacomo che finalmente potesse uscire, lanciando sassolini al gatto che non osava avvicinarsi più di tanto. Quanto tempo ci metteva? Avevo proprio voglia di un ghiacciolo, era troppo caldo per andare a giocare a pallone ma saremmo potuti andare a fare il bagno al fiume.

– Eccoti finalmente!

Giacomo scese le scale due alla volta, con le scarpe nuove della Nike che avrei voluto tanto avere anche io, i pantaloni corti celesti e la maglietta enorme dei Pantera rubata a suo fratello.

– Scusa, hanno voluto parlare anche con me.

– Ma chi, le guardie?

– Sì. Un signore in borghese mi ha fatto sedere al tavolino, c’erano anche una donna e mia mamma, mentre quello in divisa è rimasto in piedi sulla porta. Mi hanno fatto delle domande.

– E che ti hanno chiesto?

– Niente, quello che chiedono a tutti. Se la conoscevo, quando l’ho vista per l’ultima volta, se sapevo dove andava di solito, o se aveva un fidanzato. Queste cose. A te non hanno fatto domande?

– Forse è perché noi eravamo vicini di casa, tu stai laggiù in fondo. Se vanno in ordine forse ti interrogheranno tra qualche giorno.

– Forse.

Camminammo in silenzio sulla strada polverosa, andando verso la piazza. Volevo chiedere a Giacomo cosa aveva voglia di fare, ma lui teneva la testa bassa, come se volesse dirmi qualcosa di importante che non riusciva a tirar fuori da dentro di sè. Arrivammo davanti al bar.

– Ti va un ghiacciolo?

– Non mi va, ma se lo vuoi tu prendilo.

– No, non importa, continuiamo ad andare avanti. Andiamo a casa mia a prendere il pallone.

– Preferisci andare al fiume, vero?

– Sì.

– E andiamoci, dai. Ma prendiamo il pallone lo stesso.

Ercole cominciò ad abbaiare non appena ci vide arrivare. Era un nome di merda Ercole, io lo odiavo, era stato mio padre a volerglielo dare per forza. Io l’avrei voluto chiamare Monkey, come il protagonista di One Piece, ma mio padre ha detto che era stupido chiamare scimmia un cane. Come se invece fosse intelligente chiamarlo col nome di un dio greco, che poi era anche il nome del fruttivendolo del paese. Comunque era un bravo cane affettuoso, anche se abbaiava davvero troppo. Bastava che passasse un motorino, o un gatto, o peggio ancora un aereo. Lui era fifone e non inseguiva mai nessuno, ma cominciava ad abbaiare e non la smetteva più. Mia nonna gli lanciava sempre le ciabatte per farlo chetare, lui le prendeva al volo, le portava via e le nascondeva. Le ritrovavamo quattro o cinque giorni dopo, tutte mangiucchiate, e mia nonna si arrabbiava e gli tirava qualcos’altro. Mi faceva sempre ridere questa cosa.

– Vai a casa Ercole! – Gli gridai dopo aver preso il pallone.

– Ma non lo mangia, quello? – Mi chiese Giacomo.

– Cosa, il pallone? No, da cucciolo ci provava ma non ce la faceva a stringerlo con i denti. Meno male.

– Mi sa che è l’unica cosa al sicuro qui nei dintorni.

– Se Amina è passata di qui forse l’ha presa e l’ha mangiata lui.

– Dai, Patroclo! – Si voltò verso di me e mi guardò malissimo.

– Oh, ma che hai? Stavo scherzando!

– Scusa, è che sono agitato.

– Ma che fai, ti preoccupi?

– Eh sì.

– Dai quella era pazza, avrà chiesto un passaggio a qualche camionista per andare a vedere un concerto in città, si sarà innamorata e ora starà scopando col cantante.

– Sì, forse…

Camminammo ancora un po’ in silenzio, mi sembrava di aver detto qualcosa di sbagliato ma non riuscivo a capire cosa. Scherzavamo sempre, con Giacomo, e non era certo la prima volta che prendevamo in giro Amina o una delle altre ragazze. Arrivate a una certa età le femmine impazzivano, e cominciavano a comportarsi come se fossero più grandi del nostro paesino, come se volessere diventare donne di mondo, vestirsi con abiti firmati, sfilare nelle passerelle ed uscire con cantanti o calciatori. Volevano tutte scappare, e chi prima e chi dopo quasi tutte lo facevano, alla fine. C’era chi seguiva un fidanzato in città, altre andavano all’università, qualcuna tornava ma la maggior parte si faceva vedere solo a Natale e Pasqua, e forse qualche settimana in estate. Amina era ancora piccola, aveva solo un paio di anni più di noi, ma fisicamente sembrava già più grande di tutte le altre. Una donna. E il fatto di essere di una famiglia straniera la faceva sempre sembrare diversa da tutti gli altri, anche se era nata e cresciuta qui. Così le sue fantasie di fuga erano cominciate prima del normale, forse.

Intanto eravamo arrivati al fiume. Mi tolsi le scarpe ed i calzini e le posai sulla riva, poi mi sedetti sul mio sasso preferito, bagnandomi i piedi.

– Una volta mi ha fatto un pompino.

– Cosa? – Mi voltai di scatto verso Giacomo e quasi caddi in acqua per la sorpresa.

[Continua su Razione ILZ]

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