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Ghost in the Shell – Rossellina non basta!

Ghost in the Shell

Ghost in the Shell

WHITEWASHING! Per un certo periodo è stato la parola del momento, prima di lasciare il posto ad altre simpatiche diavolerie come MANSPLAINING o MANSPREADING. Il whitewashing è l’abitudine (soprattutto dell’industria cinematografica americana) di prendere per ruoli originariamente pensati per etnie diverse attori bianchi. Nel caso specifico: COME SI SONO PERMESSI di prendere per i ruoli di Motoko Kusanagi, Batou e degli altri protagonisti di Ghost in the Shell degli attori bianchi invece che dei giapponesi?

La risposta non può che essere un sonoro chissenefrega. Sigla!

Un pochino ci speravo, in Ghost in the Shell. Ci speravo perché le immagini del trailer mi piacevano, visivamente il film non è nulla di nuovissimo (abbiamo già visto le stesse cose mille volte da Blade Runner a oggi) ma fotografia e scenografie sono di ottimo livello, così come la scelta delle luci. Ci speravo perché mi sembrava un grosso investimento da parte della Paramount, che ha preso l’attrice giusta (Scarlett Johansson è gnocca e cool al punto giusto) e l’ha circondata di un cast di contorno più che decente. Ci speravo perché c’è anche Kitano, e io i film con Kitano li guardo sempre. Ci ho sperato finché non mi sono reso conto che il regista era Rupert Sanders, uno che nella sua carriera ha fatto solo quella palla assurda di Biancaneve e il Cacciatore. Quali erano gli unici pregi di Biancaneve e il Cacciatore? Delle belle immagini e una attrice protagonista (Kristen Stewart) che sembrava ancora più fica che dal vero. Ecco, poteva uno così riuscire a tirar fuori qualcosa di buono da Ghost in the Shell?

…no, non abbiamo copiato nulla, perché?

Che poi… ehm ehm… a me non piaceva molto neppure l’originale. Sono un fan della fantascienza da sempre, ma il lato cyberpunk mi è sempre rimasto un po’ ostico. Per ogni Blade Runner o Strange Days che ho adorato ci sono sempre stati due Matrix a farmi sbadigliare. Oh, scusate, l’ho detto! Anche in letteratura ho fatto veramente fatica a digerire Neuromante di Gibson, e il film di Mamoru Oshii mi è sempre rimasto un po’ indigesto. Meglio il manga di Masamune Shirow, anche se ho sempre preferito Appleseed.

Ghost in the Shell

MANCIATE DI GIAPPONE!

Ghost in the Shell parte anche bene, con alcune immagini che richiamano fortemente quelle più famose ed iconiche dell’anime (o meglio, le ricalcano). Dopo le prime scopiazzature, però, appare evidente che se già l’anime era un riassunto fin troppo conciso del manga, il film di Sanders stringe ancora di più. Come fa quindi ad essere mezz’ora più lungo? Forse che i giapponesi parlano velocissimo? Sì. Ma soprattutto Sanders (nessuna parentela – spero – con Bernie) ci ha messo GLI SPIEGONI.

Esempio:

Come mai Batou ha quegli occhioni cibernetici?

RISPOSTA CORRETTA: chissenefrega, non è mica un film su Batou! In Ghost in the Shell hanno tutti mille innesti cibernetici, lui ha anche gli occhi.
RISPOSTA DI SANDERS: ve lo spiego io con un quarto d’ora di film che avrebbe potuto essere dedicato ad altro.

Ghost in The Shell

“Deve essere comodo per leggere a letto!” – citazione colta

Ecco, Ghost in the Shell va un po’ così: accelera quando non dovrebbe, rallenta quando non serve. Perché questo? Perché l’impressione è che gli americani abbiano capito pochissimo del senso della storia di Shirow, e abbiano fatto questo remake giusto perché boh, l’anime ha avuto successo, c’è una protagonista strafica, ci sono le città cyberpunk, la gente si sparano, evviva! – applausi degli sceneggiatori che battono le manine.

Ghost in the Shell Michael Pitt

Scusate, ma non doveva essere Bertolucci il regista?

Ghost in the Shell, per quanto l’abbia sempre trovato un tantino pesante, aveva invece molto altro dentro. Parlava di controllo delle menti, di identità personale, di sessualità, coscienza di sé, sacrificio, deumanizzazione; costruiva un mondo complesso e coerente che era evidentemente un futuro per parlare del presente. La produzione americana di tutta questa roba sembra aver preso solo la presenza di una forte protagonista femminile in un 2017 che sulle donna protagoniste (Wonder Woman, Atomica Bionda) ha puntato fortissimo. E anche qui, l’anime e il manga andavano molto più a fondo su identità di genere e ruolo, qui il tutto è solo abbozzato, e Sanders sembra più interessato al culo della protagonista che alla sua anima.

Queste cose in Giappone non succederebber… ok, scusate.

È un bel giocattolino luccicante ma vuoto, ecco.

Ed è un peccato, perché Rossellina Johansson ha la faccia e il fisico (e il culo!) giusti e sembra anche impegnarsi molto per la parte. O forse è talmente brava che sa spiccare anche in mezze stronzate come questa, anche in alcune scene d’azione alla Matrix (che a sua volta era alla Ghost in the Shell?) che comunque per un momento fanno riprendere dall’assopimento. Anche Michael Pitt è azzeccato nella parte del contraltare maschile, fragile bello e maledetto (e che dovrebbe spiegarci come… ok, ok, non faccio spoiler), Juliette Binoche è un po’ sacrificata in un ruolo monocorde ma non si può dire che non faccia il suo, e Kitano… riesce ad essere Kitano anche qui, innanzitutto perché è l’unico che parla giapponese davvero (nota per il pubblico: guardare Ghost in the Shell in originale fa guadagnare mezzo punto di valutazione anche solo per la voce di Scarlett e perché non vi beccate quelle castronerie di cui parla anche Lucius Etruscus nella sua recensione), poi perché si ritaglia una scena con battuta tamarra che arriva troppo tardi, ma ci voleva proprio.

E il whitewashing, direte voi? Il whitewashing è una stronzata, perché l’unica idea sana e nuova degli sceneggiatori è giustificare la presenza della Johansson. Se (come si vociferava) l’avessero orientalizzata in post-produzione avrei capito, ma così… anzi, sembra quasi che alla fine abbiano voluto inserire a forza degli elementi orientali (come il fatto che Kitano parli giapponese e tutti lo capiscono) in una storia che poteva funzionare ambientata dovunque, visto che è stata ridotta a un film di fantascienza/action normalizzato.

Ghost in the Shell

In Under the Skin ero nuda, il passo successivo non poteva che essere questo

Dispiace, dispiace davvero… ma Ghost in the Shell si dimentica il Ghost e rimane solo uno shell… un guscio vuoto che meritava ben altro ripieno. Bocciato.

Voto: 😛

P.S. Oltre alla già citata recensione de Il Zinefilo leggetevi anche quella di Cassidy su La Bara Volante!

9 thoughts on “Ghost in the Shell – Rossellina non basta!”

  1. Bocciatissimo, ma non per il whitewashing che per assurdo ha una sua logica all’interno della storia. Peccato abbiano sbagliato tutto il resto! Grazie per la citazione 😉 Cheers

  2. Quelli che hanno “denunciato” il whitewashing hanno denunciato solo il fatto di non aver mai visto un film in vita loro: il cinema americano è nato sul whitewashing – coi bianchi che interpretavano i neri egli indiani – quindi anzi è migliorato parecchio 😀 Ah, e il tanto celebre teatro elisabettiano non prevedeva l’uso di donne nel ruolo di donne, con gli uomini che interpretavano anche i personaggi femminili: era predominazione maschile anche quella? 😛

      • Forse la stupidata del whitewashing è una tecnica sopraffina come la femminilità in Ghostbusters: tecniche di marketing da polemica sicura – per far scatenare i professionisti del social – così da pubblicizzare i film. L’esperienza ha dimostrato che non funziona, perché la gente social ama la polemica, non l’oggetto della polemica…

        • Ho paura che la tua sia una visione persino ottimistica. Ho letto e sto leggendo polemiche su qualsiasi cosa, qualcuna è sicuramente creata ad arte ma molti, ahimè, ci credono davvero!

          • Il bello… cioè, in realtà il brutto… è che due giorni dopo l’ultima polemica tutti si dimenticano dell’oggetto e si riparte da capo, riverginati, con una nuova polemica sterile fresca fresca. Beati loro che godono a polemizzare, perché avranno sempre mdo di godere! 😛

  3. Premesso che abbiamo gusti simili (anche io non amo il genere, però GITS mi piace un sacco tanto da averlo in vhs e dvd), questo film non mi ha mai attirato. Potevano farlo ambientato a NY ed era meglio. Ma che senso ha disorientalizzare un’opera che ha molto di zen (cyber-zen) per renderla orientale, quindi fallendo?

    Moz-

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