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Born to Kill, o il piacere di essere messi a disagio

Born To Kill

Il 2017 è l’anno del disagio in tv. Avete presenti quelle serie – o quei film – che vi acchiappano, delle quali riconoscete il gran valore, l’ottima regia, la grande prova degli attori, ma che quando finiscono vi fanno esclamare un sospiro di sollievo? Già c’è stato Handmaid’s Tale a farci stare male, e anche Born to Kill per me è stata così. Quattro puntate intense, recitate benissimo, mai noiose; ma alla fine, meno male fossero solo quattro!

Born To Kill

La storia parla di Sam, adolescente senza molti amici ma apparentemente normale. Anzi: ha un rapporto molto stretto con la madre, aiuta un compagno di scuola vittima di bullismo, cerca di fare conoscenza con l’ultima arrivata in classe, fa compagnia ai vecchietti in ospedale… quasi un santo. Dietro il suo sorriso ostentato, però, si intuisce qualcosa di nascosto. Sam, detto brutalmente, è un completo psicopatico, uno tipo l’Ezra Miller di …e ora parliamo di Kevin, per intenderci. Quanto lo scopriamo chiuso in camera a perfezionare la storia inventata del padre morto da eroe in Afghanistan un pochino lo compatiamo, può apparire come la reazione di un ragazzo al quale è stata negata la figura paterna (guardando la serie scoprirete perché, io voglio evitare troppi spoiler) e desidera farsi accettare, ma già alla fine del primo episodio capiamo che ormai è al di là di ogni possibile salvezza.

Born to Kill

Certe persone nascono malvagie. O meglio, prive di qualsiasi moralità o empatia. Il cinema ha spesso messo in evidenza figure di questo tipo, ma quando il soggetto non è ancora un adulto e quando la sceneggiatura è scritta così bene da riuscire a sorprendere nonostante le avvisaglie ci fossero tutte e il titolo non lasciasse spazio a sorprese, beh, il disagio dello spettatore continua a salire.

Born to KIll

Non aiuta certo il tono da incubo della narrazione, tutta soluzioni visive claustrofobiche e momenti simbolici inquietanti, né la colonna sonora estremamente dark, con The Cure e Tricky a sottilineare perfettamente quanto avviene sullo schermo. E soprattutto non aiutano gli altri personaggi, tutti chi più chi meno con qualche problema da affrontare. La madre Jenny (Romola Garai) risente degli abusi subiti e protegge Sam (il giovane e bravissimo Jack Rowan) nascondendogli il passato e si autopunisce impedendosi di vivere nuove relazioni; la fidanzata Chrissy (Lara Peake) si presenta nella nuova scuola dando fuoco al laboratorio di chimica, e fa grossa fatica a distinguere tra ribellione fighetta e psicopatia; il suo papà Bill (Daniel Mays) è debole, fallito, succube della madre come probabilmente in passato lo è stato della moglie, e così via. Provare empatia è sicuramente difficile, e senza una maiuscola prova degli attori sarebbe stato difficilissimo apprezzare Born to Kill.

Born to Kill

Per fortuna in Inghilterra sembrano tutti baciati dalle muse, persino i diciassettenni di cui non si è mai sentito parlare prima. Ringraziamo Shakespeare anche per questo! Il loro talento, quello del regista e degli sceneggiatori ha reso sostenibile – e anzi, appassionante! – questo incubo irreale che vi prende alla gola. Non perfetto, ma coinvolgente. Guardatelo!

Voto: ****

2 thoughts on “Born to Kill, o il piacere di essere messi a disagio”

  1. Me lo hai venduto con l’ideale paragone con “The Handmaid’s Tale”, l’arte ha il compito anche di angosciare se serve a smuovere i neuroni al pubblico, aggiudicato! Cheers

  2. Ovviamente è un tipo di disagio diverso: più “sociale” quello di The Handmaid’s Tale e più di pancia quello di Born to Kill. Ma secondo me il paragone ci sta!

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