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Brimstone – l’incubo nel western

Brimstone Guy Pierce Dakota Fanning

A Iacopo Badoer, librettista e poeta veneziano del ‘700, è attribuita la famosa massima “un bel tacer non fu mai scritto”. Nel caso di Brimstone andrebbe applicata ai critici cinematografici: se non sapete che cazzo dire, state zitti, ok?

Bristone fanart poster

Contravvenendo alla mia abitudine ho letto molte recensioni di Brimstone prima di riuscire a guardarlo. Ero curioso, perché consapevole che non sarebbe arrivato facilmente nelle nostre sale, perché ho seguito con interesse gli inizi della carriera di Martin Koolhoven e perché il regista olandese sembrava scomparso dal 2008. Il successo di Winter in Wartime sembrava prospettargli una luminosa carriera anche negli USA e le sirene sono state tante e tentatrici. In effetti con Brimstone il tanto sospirato primo film in inglese (con una produzione internazionale in gran parte olandese) è arrivato. Otto anni dopo, ma la pazienza è una virtù.

Brimstone è un western, e questo va messo subito in chiaro. Un western vero, contaminato con horror e rape & revenge. Una sorta di The Hateful Eight che si prende maledettamente sul serio, o un Bone Tomahawk ripulito a lucido per partecipare al Festival del cinema di Venezia. È la storia della giovane Liz, intepretata da Dakota Fanning, che cerca di sfuggire alla persecuzione del padre Guy Pierce nella selvaggia America del 1800. Quattro capitoli non narrati in ordine cronologico per una violenta e angosciante discesa nell’incubo. Una passeggiata di salute insomma!

Brimstone Guy Pierce Dakota Fanning

Ne ho lette di tutti i colori, su Brimstone. I più buoni l’hanno definito pornografia ed esaltazione della violenza. Poi “un film amorale”, “misogino”, “torture porn”, persino “un film contro le donne”. Una recensione americana diceva che il film è così perché “in Olanda c’è lo sguardo in assoluto più liberale su quella che eufemisticamente potremmo definire la sessualità infantile”. In pratica han detto che Koolhoven ha strizzato l’occhio ai suoi amici pedofili. Ma è davvero così tremendo questo Brimstone?

La risposta è no. Il fatto è che Martin Koolhoven non ha paura di osare. Ha osato raccontando l’epopea di una donna disperata in un mondo nel quale la violenza è una cosa normale. Dakota Fanning è straordinaria nel mettersi completamente a disposizione di una storia nella quale il dolore e l’inevitabilità del male sono palpabili. Recita con gli occhi, con il corpo, con il cuore. Le uniche speranze di liberazione sembrano passare per lei attraverso lo sfruttamento (ma uno sfruttamento “controllato”, che sicuramente avrà fatto incazzare chi si ferma alla prima impressione) e la morte. Il west è mondo di uomini. Brimstone è un western e ne utilizza tutti i meccanismi, ma viene da pensare che la vicenda narrata avrebbe potuto essere ambientata con poche modifiche duemila anni fa o domani. Ed ecco che siamo costretti a parlare di horror…

Brimstone Carice Van Houten

Il Reverendo interpretato da Guy Pierce è sostanzialmente l’uomo nero che sembra non poter essere sconfitto. Nel tempo e nello spazio lui continuerà a venire verso di te, come se fosse la “cosa” di It Follows, inevitabilmente attratto da colei che ha risvegliato il demone. O visto che siamo in periodo di Wrestlemania una specie di Undertaker che continua a rialzarsi. Più vecchio, più sfregiato, più spietato. Guy Pierce ci da una lezione sul tema “come fare paura rimanendo una figura assolutamente credibile”. Il Reverendo è così terribile perché potrebbe vivere accanto a noi nei nostri paesi e noi forse non ce ne accorgeremmo nemmeno. È il terrore domestico, è l’angoscia di rientrare in famiglia. È l’inevitabilità del male.

Brimstone Guy Pearce Carice Van Houten

No, non c’è da stupirsi che negli USA se ne sia parlato così male. Brimstone è un western di due ore e mezzo che ha l’ambizione di narrare una storia terribile ed universale usando il linguaggio del cinema horror e survival. L’ambizione pare un peccato imperdonabile nel moderno cinema mainstream, dove è sempre meglio assecondare la formulina del momento, magari strizzando l’occhio ai fan in maniera fintamente politically correct, tanto per far credere che il processo creativo abbia goduto della massima libertà possibile.

Poi arriva Brimstone, e si parla di pornografia. Come se lo si fosse visto con la coda nell’occhio, con il preconcetto di un cinema diverso, alieno, da bocciare a prescindere. Uno scandalo annunciato e da denunciare. Anti-Hollywood.

Brimstone

Si parla di pornografia della violenza, ma ognuno dei momenti più terribili accade appena al di fuori dell’occhio della telecamera. Appena fuori dallo schermo. Koolhoven volta lo sguardo all’ultimo momento, quasi pudico, perché nei torture porn la raffigurazione della violenza fisica ed esteriore è la raison d’etre di tutto il film. In Brimstone il dolore fisico è secondario, e le cinghiate e una vita di silenzio si accettano quasi come il male minore. Quello che fa male è l’angoscia. La consapevolezza. Il male non si esorcizza con il sangue. Il dolore non va visto, va sentito. Ogni colpo non fa tanto male per sè, ma riacutizza vecche ferite che possono essere scomparse sulla pelle, ma non abbandonano certo l’anima.

Si parla di film contro le donne, e… ma che cazzo, Brimstone è una denuncia fortissima contro la violenza e la sottomissione! È un film che racconta il dolore delle donne con una partecipazione assoluta, senza compiacimento. Non c’è fascino del male, non c’è assolutamente ambiguità nel film. Semmai potremmo parlare di banalità, per rubare una frase fatta ma efficace. Banalità del male e in qualche modo anche banalità del bene. Permangono diffidenza, estraneità, permane la dolorosa consapevolezza che la redenzione dovrà saltare almeno una generazione. Ed è l’unica speranza.

Brimstone non è un film perfetto, intendiamoci. È eccessivo, non tanto per cosa mostra ma per come lo mostra. È torrenziale, magniloquente, esagerato ma austero, in alcuni momenti persino didascalico nella sua denuncia. Il male viene reso sempre più nero, senza mai renderlo irreale ma viene da pensare “questo è troppo anche per lui”. È un film che fa male dentro, che brucia e continua a bruciare. Visivamente è una meraviglia, scenari incredibili e fortemente metaforici fissati da una fotografia livida e impressionante. Fango, polvere, merda, sangue, neve. Acqua. Ha dei momenti meno efficaci, degli attori meno efficaci (Kit Harington non fa un cattivo lavoro in assoluto, ma di fronte all’intensità del resto del cast scompare), dei dialoghi che funzionano pochino, dei riferimenti biblici insistiti. Forse vi farà schifo, ma giudicatelo senza preconcetti e scoprirete un gran film. Un film che ci prova disperatamente.

Voto: ****

3 thoughts on “Brimstone – l’incubo nel western”

  1. Se mostri la violenza al cinema, sei un violento. Se fai satira politica sei un estremista e via così, scambiare questo per un film misogino vuol dire essersi seduti dal lato sbagliato dello schermo, dietro, anzi, fuori dal cinema proprio. Mi è piaciuto molto, durata, temi e mix di generi non per tutti, ma me lo sono bevuto con una facilità irrisoria, Koolhoven ha fatto un gran lavoro davvero 😉 Cheers

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