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La Bojack-mania – Stagione 5

Ormai tutti amano Bojack. La serie animata dell’uomo chiamato cavallo ha avuto inizi difficili, e anche io inizialmente l’ho guardata con un po’ di sospetto. Per poi cominciare ad adorarla. La serie animata di Netflix sembra riuscire a convincere tutti: uomini e donne, destri e sinistri, vecchi e giovani. Recentemente ho letto un articolo scritto da una diciannovenne che sostiene che Bojack Horseman le abbia rovinato la vita. Ci credete che la cosa mi ha un po’ spaventato? Ci torno tra un po’.

Nel mondo dorato (più o meno) di Hollywoo Bojack ha 54 anni, visto che è nato nel 1962. Come molte star televisive di quel periodo era già un filo fuori età quando recitava nella sitcom che l’ha reso famoso: Horsin’ Around. Ma ci poteva stare. Era un ragazzo troppo cresciuto, viveva nella bambagia dopo un’infanzia impossibile, era amato da tutti e poteva avere tutto ciò che voleva. Il declino l’ha colpito inesorabile, e la nostalgia del successo vero e l’incapacità di accettare chi è hanno fatto il resto. Questo era Bojack all’inizio della prima stagione, questo è ancora (quasi completamente) Bojack alla fine della quinta.

Non è bastata la biografia che l’ha fatto scoprire nuovamente al mondo, che gli ha dato delle nuove possibilità mettendo alla luce le sue debolezze, il suo essere un uomo (ok, un equino) dietro la maschera della star. Non è bastato quello che gli sembrava il progetto della sua vita, la storia di Secretariat che pensava potesse renderlo finalmente realizzato, convinto di aver lasciato davvero qualcosa di valido per i posteri. Non sono bastati i drammi familiari, non sono bastati gli amici che hanno provato a scuoterlo, né i compagni di viaggio che hanno provato a sfruttarlo. Non sono serviti Diane e Todd, Mr. Peanutbutter e Princess Carolyn… pensate davvero che possa servire Philbert?

Se Secretariat era in qualche modo il modello a cui Bojack si ispirava per la sua vita, Philbert ne rappresenta il lato oscuro: un detective viscido, contorto, sboccato, alcoolizzato, pesantemente fuori forma, pieno di segreti e di livore. Le somiglianze sembrano partire come coincidenze (le case dell’attore e del personaggio sono identiche) per poi svilupparsi a livello più profondo. Il mondo di Philbert è persino più assurdo di quello di Bojack: bombe atomiche e radiazioni, tradimenti e passioni. Ma sono solo differenze di facciata, e neanche troppo sotto il mondo è lo stesso. E le due realtà cominciano a mescolarsi sempre di più, come in un allucinazione indotta da droghe…

Philbert è lo show nello show, in una stagione che ancor più delle precedenti parla esplicitamente dello show business americano, e delle sue logiche malate. C’è l’attore che ne combina di tutti i colori, offendendo chiunque e venendo ogni volta perdonato, e ci sono le vittime neanche sempre colpevoli di questo gioco al massacro. Philbert in fondo potrebbe essere qualsiasi show della televisione moderna, pronto a indugiare scrupolosamente sui dettagli più sordidi per fare audience, nascondendosi dietro la facciata dell’artistico, del reale, del maledetto. Exploitation mascherata, come se ci si dovesse vergognare dei nostri istinti e se si dovesse trovare una giustificazione per soddisfarli. Westworld? Game of Thrones? C’è l’assurdità di un mondo a-morale (la storia assurda di Henry Fondle) che questa morale fa finta di averla sempre bene in mente.

In questo delirio allucinato emergono dei flash di realtà spaventosi: l’episodio 6 è una perla di scrittura di qualità sublime, 25 minuti di monologo che è perfetta stand-up comedy e dramma da brividi. Entrambe le cose, contemporaneamente. Non spoilero, ma tanto l’avrete già visto. Altri incubi anche per gli altri personaggi che in fondo non fanno altro che cercare se stessi fin dall’inizio, come Diane in viaggio per ritrovare (casualmente) le proprie radici e Princess Carolyn alla continua ricerca di una famiglia. Ricerca, parola che torna. La sensazione è che non ci siano speranze di raggiungere questi obiettivi, a meno di non trasformarli radicalmente. 

Incubi che toccano anche chi finora era sembrato un’isola estranea: Todd che scopre responsabilità e forse prova a crescere, persino Mr. Peanutbutter trova un lato profondo che finora era stato vagamente accennato (vedi la storia della sua famiglia) ma sembrava fuori dalla sua capacità di comprensione. 

Forse c’è davvero qualcosa per tutti, in Bojack. La paura di crescere, la depressione, il nodo alla gola che ti fa pensare che non potrai mai essere felice. Fa un po’ paura la voglia che da molte parti sembra trasparire di identificarsi in Bojack, un vecchio perdente che non merita di risollevarsi. Un cinico che rifiuta di migliorare. Uno che non accetta aiuti. Bojack è il cinquantenne triste che usa il cinismo per nascondere la sua incapacità di accettare aiuti. Anche quando sembra voler fare qualcosa (vedi gli incontri con la psicologa) riesce a prendere la strada più sbagliata: ogni singola volta. Per questo fa paura la voglia di molti ragazzi di identificarsi in lui. Bojack è la resa incondizionata al nulla cosmico.

Fa paura ma probabilmente non è un caso, nella generazione più connessa eppure più depressa della storia. La generazione che come Bojack ha tutto eppure non ha nulla. La generazione a cui manca qualcosa, forse un’identità.

La sesta stagione arriverà e prometterà rivoluzioni, e alla fine girerà intorno al nulla, immutabile, stagnante, pericoloso. Affascinante, anche. Persino divertente. C’è sesso, ci sono i soldi, le droghe, l’alcool, i beni materiali, ci sono infinite luci e infinite illusioni. Forse il problema è che la realtà non è sceneggiata da Raphael Bob-Waksberg e non va in onda su Netflix. 

Sono stato amaro? Non ho parlato di niente? Non c’è niente da dire. Forse solo che se una serie stimola ragionamenti come questi è segno che contiene qualcosa di importante. Anche di pericoloso, come dicevo sopra, ma importante, e che dovreste davvero vedere… per imparare come NON fare per essere felici.

Per il resto vale ancora il titolo del mio articolo sulle prime quattro stagioni: Bojack Horseman fa ridere, e fa davvero male.

3 thoughts on “La Bojack-mania – Stagione 5”

  1. Oggi tocca a me dire che la tua recensione è sontuosa, per altro con riflessione molto azzeccata, come mai questo cavallo depresso di 54 anni piace a tutti, possibile che tutti si identifichino in lui? Le cose sono due, pensiero omologato, oppure davvero questa serie è capace di andare a toccare i nervi scoperti che abbiamo un po’ tutti, destri o sinistri per usare la tua espressione. Voglio sperare che sia il secondo caso, perché la serie è veramente ottima, ma il cinico in me non si toglie dalla testa che pure il primo punto abbia un peso. Cheers!

  2. Caro Mick,
    grande recensione, tu e Cassidy avete fatto due post eccezionali. Bravissimi!

    Dunque, partiamo dall’articolo letto sul web della 19enne. Perdonami se mi prendo i meriti per avertelo segnalato :D.
    Penso che quella fosse una presa di posizione paraculissima dell’autrice dell’articolo, perché una\un 19enne non può assolutamente immedesimarsi in Bojack. Certo, ci credo che le sia piaciuta come storia (una 19enne non è che non può capire il personaggio di un 50enne), ma non può dire che “la storia ha cambiato la sua vita”.

    Bojack è un po’ in tutti i noi, dai 30 ai 50 anni, salvo non essere pienamente realizzati tra lavoro, vita familiare e affetti.
    Io non bevo e non fumo, non ho mai fumato una canna, non sono uno sciupafemmine, ma di sicuro mi rivedo in molti tratti di Bojack, soprattutto in questa sua incapacità di sottrarsi “all’eterno ritorno”. E’ vero, maturiamo, facciamo esperienza dagli errori, ma alla fine…incappiamo sempre negli stessi meccanismi, dicendo “ah sta volta farò così”, poi cambiamo qualcosina, ma siamo sempre al punto di partenza.

    Però sembra quasi che a questo meccanismo non ci si possa sottrarre.

    Mi ritrovo molto in una frase che Bojack disse nella quarta serie, o nella terza, non ricordo: “Tutti ti amano, ma non piaci a nessuno”, che è un frase perfetta non solo per un attore.

    In questa quinta serie mi ha colpito molto il personaggio di Diane, che ha tratti molto negativi nella sua “vendetta” verso Bojack, per non parlare di mr.Peanutbutter che nelle precedenti serie era veramente “un cartone animato”, una sorta di Gastone Paperone che non trova i portafogli ma a cui va tutto bene, tranne l’amore (ma anche Gastone e’ così…). Poi scopriamo che Mr.P. altri non è che l’eterno Peter Pan che non vuole crescere. Bravo, realizzato, ricco, ma un Peter Pan che non riesce e non vuole crescere.

    ps Bojack dovrebbe essere del 1964, non del 1962. Cambia poco comunque :D.

    • Bellissimo commento! In effetti la tua segnalazione mi ha dato lo spunto per questo articolo, completamente diverso da quello che avevo cominciato a scrivere. Rispondo anche a Cassidy, l’omologazione del pensiero secondo me ha molto a che fare col successo di Bojack, ma allo stesso tempo questa serie ha qualcosa in più delle altre. Davvero di tutte le altre. Ha una capacità di entrarti dentro che quasi inquieta…

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